3 Icone Sportive diventate “brand”
C’era una volta mamma Dassler e papà Dassler che diedero alla luce due stupendi fanciulli: Adolf e Rudolf.
Aldolf era la mente, introverso e stacanovista, mentre Rudolf il commerciale estroverso.
Cosa c’entra con questo articolo? Fate attenzione.
I due fratelli da grandi fondarono un’azienda: la Gebrüder Dassler Schuhfabrik, che solo a pronunciare il nome ti passa la voglia di acquistare qualsiasi cosa.
L’azienda era una fabbrica di scarpe che faceva della differenziazione il suo core business. Non le solite scarpe stringate degli anni ‘20/30 ma scarpe da sprint, da corsa.
I due fratelli nel 1936 fecero la scelta che cambiò le loro vite: decisero di fornire le proprie scarpe ad un certo Jesse Owens, che tra le altre cose quell’anno vinse 4 medaglie d’oro alle Olimpiadi di Berlino sotto gli occhi ed i baffi di Hitler indossando scarpe fornite dai Dassler.
Qui nasce per la prima volta nella storia il primo testimonial sportivo.
I due fratellini dopo un po’ si separarono e fondarono due aziende separare: ADIDAS e PUMA.
Che famiglia incapace!
Questa parentesi iniziale solo per farvi capire quanto storicamente abbiano pesato i testimonial sportivi nella riuscita di un brand “sportivo”.
Piccola aggiunta sulla nostra storia, nel 1970 PUMA, ingaggiò Pelè per i mondiali in Messico chiedendogli di allacciarsi le scarpe.
Insomma due che ci hanno saputo fare.
Col passare degli anni questo trend è cresciuto sempre di più, ma col tempo si è andato molto oltre, si sono creati dei fenomeni paranormali. Figure, icone dello sport che sono state accostate talmente tanto al brand sponsorizzato che è avvenuta una sorta di fusione tra lo sportivo e il brand.
Di seguito infatti voglio elencare 3 casi totalmente diversi di icone sportive che sono diventate dei veri e propri brands – chi per un motivo chi per un altro.
3 Icone Sportive diventate “brand”
David Beckham
Non possiamo non iniziare dallo sport più seguito nel mondo: il calcio.
Diverse sono le icone sportive che si sono susseguite negli anni: chi con il proprio fascino, con la propria bellezza, altri invece con la simpatia ed il savoir faire ed infine qualcuno anche per la propria bravura nel gioco del calcio.
Parliamo dei vari: Ibrahimovic, CR7, Messi, Vieri, Ronaldinho. Tutti seguitissimi, tutti bravissimi, ma ce n’è uno su tutti che ha superato ogni limite: David Beckham.
Non parliamo delle sue capacità calcistiche, quelle le lasciamo giudicare a chi di dovere, ma della sua risonanza in termini di immagine.
Se pensiamo ad un periodo dove non c’erano Social Media, non esistevano smartphone, l’immagine che ha costruito, o che gli hanno costruito è senza ombra di dubbio di una risonanza inimmaginabile: David Beckham si definisce il testimonial per definizione.
Diventato una vera e propria icona sportiva ad un certo punto associato più alle grandi marche che al calcio.
Da calciatore a vetrina commerciale. Beckham non ha sfruttato la propria immagine per creare un brand tutto suo come magari CR7, ma è andato oltre: perché un solo brand? Perché un solo prodotto? Beckham è di tutti, almeno tutti quelli che se lo possono permettere.
L’ex giocatore, padre, marito, metrosexual, atleta, è quindi un enorme centro commerciale che copre target diversi. La televisione americana intuisce il fenomeno e gli affida un programma settimanale, il David Beckham’s Soccer Usa, mentre anche la moglie ha un suo show, il Victoria Beckham: Coming to America, un orrido reality di infotainment dove le telecamere la seguono dovunque nel suo tentativo di ambientarsi in America e cioè fondamentalmente fare shopping, posare in mezzo al deserto con il marito in un improbabile set fotografico, tagliarsi i capelli, scegliere la piscina, prendere multe. La coppia ha anche una propria fragranza per Coty, Intimately Beckham, con due profumi, uno per lui e uno per lei senza specificare chi usa cosa tra i due.
Addirittura esiste un sito web che riporta tutti i post pubblicati dalla Star sui vari social, indicando ciò che indossa in quel momento e dove acquistarlo.
Beckham diventa anche un oggetto per collezionisti. Per lui viene ad esempio creato uno scarpino dedicato, le Adidas Predator Pulse, in un’edizione limitata di soli 723 esemplari, vendute all’interno di un cofanetto contenente un libro a 700 sterline. Lettura obbligata e cara che mescola la poesia di un plantare, l’arte di un tacchetto, la scultura di una tomaia all’eccezionalità di un piede feticcio, il suo.
Michael Jeffrey Jordan
Se dicessi “sport”, una parola generica che può comprendere migliaia di sport, quale volto assoceresti a questa parola?
Personalmente risponderei Michael Jordan!
Jordan è lo sport, a prescindere da quale.
Diversamente da Beckham, Jordan non è una vetrina commerciale, la sua immagine è stata prestata ad un unico brand, in modo talmente empatico da fondersi addirittura in un’unica cosa: Air Jordan.
La cosa pazzesca di questa storia è che rappresenta un raro caso in cui un testimonial, arriva ad avere altri testimonial.
Infatti Jordan diventa un brand che nonostante sia basato su un testimonial, a sua volta ha i suoi testimonial. E che testimonial direi: Carmelo Anthony, Ray Allen, Chris Paul, Blake Griffin, Russell Westbrook, Neymar.
Come ogni atleta promettente, Jordan era in cerca di un contratto di sponsorizzazione. Tuttavia, Jordan non aveva alcuna intenzione di firmare con la Nike. Cercò di firmare con l’Adidas giacché era fan di lunga data dei loro prodotti.
Dopo provò a firmare con la Converse che all’epoca aveva la fetta più grossa del mercato di sponsorizzazioni NBA.
La Nike al tempo non era il gigante dell’abbigliamento sportivo che è oggi. L’azienda era specializzata in scarpe da corsa e aveva deciso di espandere le operazioni per non rischiare di cadere in oscurità considerando che la moda delle scarpe da corsa si stava affievolendo. L’azienda riteneva che Jordan sarebbe diventato una grandissima star nel NBA e che il suo carisma e charm l’avrebbero reso il portavoce perfetto per aiutare l’azienda a crescere. Avevano ragione, eccome.
Valentino Rossi
Orgoglio italiano, rivoluzione nel panorama motociclistico.
Valentino è la MotoGp. E’ a mio parere l’unico sportivo nella storia di tutti i tempi che va al di sopra di tutto, al di sopra addirittura della propria federazione sportiva.
La sua fama, la sua risonanza è talmente ampia da trovare il 80% dei tifosi in qualsiasi paese in cui si svolga un evento motociclistico. MAREA GIALLA.
Che sia Spagna, Germania, Italia, Australia, USA, non importa! Sugli spalti il colore predominante sarà sempre il giallo.
Nessuno e dico nessuno sportivo ha mai conseguito nel proprio sport una predominanza tale. Alì aveva Foreman o Frazier che gli rubavano un po’ di scena, Federer invece Nadal o Djokovic, Jordan, Sahquille O’Neil.
Insomma c’è sempre stato un rivale storico che abbia portato via qualche tifoso o comunque risonanza al personaggio. Con Valentino ci hanno provato, ci provano ancora in età avanzata, ma il brand Rossi è troppo forte (ovviamente parlo di brand, di immagine e di fama. non di risultati).
I tre casi che ho elencato mostrano quindi tre situazioni nettamente diverse, di come uno sportivo possa diventare un’icona talmente affermata da trasformarsi in una marca.
Nel primo caso il marchio Beckham, non una marca commerciale ma un marchio basato su un uomo che diventa la vetrina commerciale di diversi brands.
Nel secondo caso invece Jordan, che da testimonial diventa un marchio affermato di lunga durata nel tempo.
Ed infine Valentino che con la sua risonanza quasi sostituisce un intero sport, la Motogp oggi viene identificata nel suo nome. Un’immagine talmente forte da permettergli di creare non solo una sua linea di franchising VR46 ma anche un team motociclistico.
Alessio Paparo | Square Media Agency